"Se non faccio altro, non mangio": un'indagine sulla dura realtà dei registi cinematografici

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Simon Bailly per “Le Nouvel Obs”
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Indagine Mentre il Festival di Cannes è in pieno svolgimento e trasmette un'immagine glamour della professione, la realtà non è così rosea per molti sceneggiatori e registi.
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Prima degli ultimi Oscar, Brady Corbet, il regista di "The Brutalist", ha ammesso di non aver guadagnato un centesimo nei tre anni trascorsi a produrre e promuovere il suo film e di aver dovuto accettare di girare spot pubblicitari in Portogallo per pagarsi l'affitto. Da parte sua, Sean Baker, il regista di "Anora", ha sottolineato la difficoltà per un regista indipendente di guadagnarsi da vivere e, a maggior ragione, di avere una famiglia da mantenere.
Il fatto che i registi dei due film americani più celebrati del momento soffrano e si preoccupino per la precarietà della loro professione solleva un interrogativo: e in Francia? Il contesto qui non ha nulla a che vedere con gli Stati Uniti, dove la desertificazione dei cinema e il disinteresse degli studi cinematografici verso tutto ciò che non può essere franchizzato sono mortali. Noi beneficiamo di un sistema, l'eccezione culturale, che ci consente di produrre circa 250 film all'anno.
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